In Italia sono ben sei milioni le persone che soffrono di artrosi. Dolore, zoppia, gonfiore, limitazione funzionale e instabilità sono solo alcuni dei sintomi che le persone si trovano a dover affrontare quando colpisce il ginocchio. Gli antinfiammatori e il riposo sono gli approcci più classici, ma al Centro Nazionale Artrosi, il professor Marco Lanzetta e la sua équipe puntano sulle soluzioni rigenerative e su programmi di supporto che includono laserforesi, alimentazione anti-artrosi e integratori.
Dalla valutazione accurata del paziente a protocolli innovativi a supporto della medicina rigenerativa. «Quando un paziente si rivolge a noi – spiega il professor Marco Lanzetta, Direttore Scientifico dell’Istituto Italiano di Chirurgia della Mano e Consulente Internazionale del Centro Nazionale Artrosi – molto spesso sopporta il dolore artrosico già da diverso tempo. La valutazione clinica inizia già osservando la deambulazione del paziente quando entra in studio e prosegue con la valutazione della distribuzione dei carichi durante la camminata e in seguito si farà sdraiare il paziente per valutare la mobilità articolare. E’ importante verificare da subito lo stato delle altre articolazioni perché può accadere che una persona si rivolga a noi lamentando dolori al ginocchio quando in realtà la problematica ha origine nella schiena o nell’anca. In seguito, si effettuano test specifici per valutare la stabilità dell’articolazione e lo stato di menischi e legamenti. Una volta verificato che il problema derivi proprio dal ginocchio chiederemo al paziente di sottoporsi a una radiografia in carico (cioè eseguita in piedi), a una radiografia con proiezione di Rosenberg (per valutare il consumo dell’articolazione) e, se necessario approfondire, a una TAC».
Al Centro Nazionale Artrosi usiamo le cellule mesenchimali. Di cosa si tratta?
«È una procedura altamente innovativa, indicata per artrosi e artrite, che utilizziamo da diversi anni con risultati straordinari – continua il professore -. Si tratta di infiltrare all’interno dell’articolazione cellule mesenchimali tratte dal grasso prelevato al paziente. Queste cellule sono staminali giovani che hanno un’azione antinfiammatoria e sono di stimolo alla rigenerazione della cartilagine».
L’intervento si svolge in tre semplici passaggi:
1. Aspirazione del grasso: con una semplice anestesia locale si esegue un’incisione di un paio di millimetri attraverso la quale, con l’utilizzo di una cannula, viene aspirato il tessuto adiposo
2. Preparazione del grasso: Il grasso viene inserito in una pompetta e attraverso un sistema di sbattimento con delle biglie metalliche, si separa dalle cellule mesenchimali
3. Infiltrazione: con l’aiuto di un apparecchio radiologico si infiltra il materiale biologico ottenuto all’interno dell’articolazione anche in tre o quattro punti diversi. L’apparecchio radiologico aiuta il chirurgo ad agire con estrema precisione.
Quali sono i vantaggi delle terapie con cellule mesenchimali?
Nei casi di artrosi iniziale, qualora la situazione del ginocchio non sia già irrimediabilmente compromessa, dieta, movimento e l’eventuale impianto di cellule mesenchimali possono essere di grande aiuto nel ritardare i processi degenerativi, aiutare quelli antinfiammatori e la rigenerazione della cartilagine. «Il primo vantaggio – racconta il professor Marco Lanzetta – riguarda la diminuzione del dolore artrosico e la rigenerazione dei tessuti residui che permetterà di ritardare il più possibile la necessità di eventuali interventi più invasivi, come la protesi. Essendo poi una procedura ambulatoriale di cui è necessaria una sola seduta, il paziente arriva in studio per la terapia e torna a casa camminando poco dopo l’intervento, con l’aiuto di semplici analgesici. Inoltre, la terapia con cellule mesenchimali ha il vantaggio di essere efficace nella prevenzione dell’artrosi precoce post traumatica, specie nei giovani sportivi. Infine, l’infiltrazione di cellule staminali può aiutare a posticipare anche notevolmente l’impianto di una protesi. In pazienti sui 40-50 anni che iniziano ad avere dolore al ginocchio e in persone più anziane in attesa di protesi, riscontriamo una ripresa funzionale importante dopo due-tre mesi».
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Cosa fare dopo l’infiltrazione?
«È necessario che il paziente collabori facendosi carico di un impegno globale – dice il professor Marco Lanzetta -. Innanzitutto sarà richiesto alle persone in sovrappeso di dimagrire. Il nostro supporto con il servizio di nutrizione aiuterà i pazienti ad adottare un regime alimentare adeguato che, oltre a favorire tramite il cibo i processi antinfiammatori, li aiuterà a perdere peso. Anche il movimento è importante, poiché l’artrosi tende a irrigidire le articolazioni, stando fermi facciamo il gioco della malattia. Bisogna muoversi di più e farsi affiancare dal fisioterapista o dal personal trainer. Dal punto di vista farmacologico – sottolinea il direttore del Centro Nazionale Artrosi – crediamo molto nell’aiuto della laserforesi. Il laser non è curativo di per sé, ma viene utilizzato come veicolo per veicolare dei farmaci, a volte cortisonici, direttamente all’interno dell’articolazione minimizzando in questo modo gli effetti collaterali di un’assunzione per via orale».
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Artrosi di ginocchio, anche le protesi sono innovative
«Quando possibile – continua il professor Marco Lanzetta – usiamo la protesi monocompartimentale, quella cioè che sostituisce solo uno dei due compartimenti del ginocchio, interno o esterno. Il vantaggio di questo impianto è che i legamenti sono mantenuti così come sono e il paziente avrà la sensazione di ginocchio “proprio”. Le protesi più avanzate permettono di mantenere intatti i legamenti crociati, quelli che danno stabilità al ginocchio, ma è chiaro che questa soluzione non è per tutti. In caso di legamenti usurati e rotti abbiamo messo a punto protesi anallergiche sopportabili da tutti e, grazie alla TAC preventiva, siamo in grado di creare protesi con mascherine personalizzate minimizzando così i tagli e le conseguenti cicatrici chirurgiche. I tempi di recupero dipendono dall’età, ma si possono approssimare in circa due mesi. Alcuni pazienti già dopo un mese sono in grado di abbandonare le stampelle».